Eccoci arrivati alla seconda parte della mia avventura in Liguria, ammetto che è passato abbastanza tempo tra primo articolo e questo e non è perché mi sia dimenticato, oppure perché avessi meglio da fare, ho incontrato invece una seria difficoltà a ricordare e raccontare in modo positivo questa seconda parte. Non crediate che mi stia mettendo a raccontare una di quelle solite stupide storie, magari intrise di sentimentalismi e stupidaggini varie al fine di strappare qua e là qualche simpatia dal pubblico femminile di questa pagina, anzi è tutto il contrario.
All’inizio di questo articolo partendo da quei bellissimi centri d’informazione che ci sono in tutte le città che hanno un po’ di turismo, e vi dirò di più quello dove inizia la nostra storia… beh di turismo ne aveva tanto. Comunque mi ritrovo in questo ufficio turistico che, vi posso garantire avrà avuto come minimo 40° all’ombra. Completava questo clima da forno crematorio di un alquanto simpatica fila per parlare con l’unica impiegata del luogo. Dopo non poca attesa e la fine della fila mi ritrovo davanti l’impiegata, una signora che in evidente sovrappeso stava sudando anche per quelli in fila. Mi ritrovo nell’ufficio informazioni perché ho terminato le cose da vedere nel raggio della mia macchina e dunque malauguratamente decido di visitare le famose Cinque Terre. Visto che sono un piccolo tratto di costa della riviera di levante situato poco prima di La Spezia nel quale stanno incastonati cinque borghi (Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore) raggiungibili solamente dal mare o via treno, desideravo qualche informazione in merito ai battelli. La signorina comunque dopo aver bellamente sudato qualche altro litro per alzare il braccio e passarmi una brochure inizia a raccontarmi tutta la vicenda: dove si prendono i traghetti, dove si prende il treno, dove si prende il biglietto del treno e così via. Il risultato è che ho passato 45 minuti della mia vita a sudare all’interno di un centro informazione per uscirne con la stessa conoscenza delle cose che avevo quando sono entrato con il solo vantaggio di ritrovarmi in mano un volantino patinato che mi racconta per filo e per segno quanto sia bellissimo visitare le cinque terre. Programmo la gita per qualche giorno dopo e, presi biglietti del treno, biglietti del battello e lasciata la macchina in un posto dove avrei avuto la certezza di non avere il pensiero di tornare di non trovarla più, parto per avventura.
Il treno per Monterosso, località di partenza dei battelli, è un regionale, bello alquanto confortevole con l’aria condizionata che va molto bene e non ti fa percepire il sole di agosto. Dopo mezz’ora arrivo a destinazione. Monterosso è un Borghetto alquanto carino con spiagge a pagamento a perdita d’occhio e la mancanza di qualsiasi cartello per indicare da che parte partano i battelli. Mi rivolgo così a una negoziante di souvenir alquanto gentile per quanto non del tutto capace di dirmi dove dovessi andare; e mi accodo così a quella che sembra e in fondo lo era a una comitiva di tedeschi. Il turista tedesco è una creatura alquanto utile se volete fare un giro turistico da qualche parte ed io, dopo un po’ di sole diventato più rosso e ancora più biondo di quello che già normalmente sono senza contare l’abbigliamento che è volutamente “crucchegginate”, mi diverto ad accodarmi a queste comitive. Questo mio sembrare tedesco è alquanto utile poiché non pensano tu sia del luogo e ti permettono di fotografare tutto: nessuno ferma un turista tedesco per dirgli “tu non puoi fotografare questo!”. Altro vantaggio che ho scoperto è che posso anche liquidare la gente che ti importuna per strada rispondendogli talvolta “nein danke” altre “no thanks” a seconda della nazionalità che sento più mia in quella giornata. Seguendo comunque i miei amici tedeschi, arrivo a una seconda insenatura che ha di nuovo spiagge a pagamento a perdita d’occhio ma anche un piccolo molo sul quale si snoda la fila per i battelli. Dietro un costone di roccia un battello senza nome se ne sta ormeggiato pronto alla partenza.
Ufficiali del battello in tenuta evidentemente informale ci invitano a mostrare il biglietto e prendere posto a bordo attraverso una piccola passerella. Il risultato che ne deriva è una coda lunga e tortuosa che serpeggia sul molo. Poco prima di salire noto alla mia destra un signore di colore, ai suoi piedi una varietà infinita di cappelli che neanche la boutique in galleria Vittorio Emanuele a Milano. E questo vi posso garantire era un indizio molto importante. I venditori abusivi sono a oggi i migliori venditori al mondo ed è facile capire il perché: la loro condizione di abusivi non gli permette di perdersi in frivolezze nel tentativo di rifilarvi abiti o cianfrusaglie che neanche loro vorrebbero, no! Loro ti vendono ciò di cui hai o avrai bisogno. Ne consegue che i venditori abusivi sono senza ombra di dubbio i migliori termometri dei tuoi bisogni attuali e futuri.
Salgo sul battello e prendo posto sulla parte superiore di esso, quella panoramica e senza tetto e mi ci metto anche comodo. L’idea è infatti quella di viaggiare fino a Porto Venere, visitarlo, e poi fare il percorso a ritroso in modo da evitare i turisti. Accanto a me la mia Contax 139Q, la mia amata macchina fotografica analogica caricata con un rullino Kodak Ektra100, pellicola che amo alla follia e che regala fotografie sature e qualitativamente superiori alle altre pellicole a colori. Comunque mentre facciamo tutte le tappe fino a Porto Venere una nebbiolina fastidiosa mi rovina tutte le foto, nebbiolina che si dissipa solo quando arriviamo a destinazione.
Metto piede a terra dopo un’ora e mezza dalla partenza e ammetto di esserne felice, Porto Venere è bellissima; una splendida cittadina che sale sulla costa e con degli scorci che meritano di essere fotografati: dopo aver superato la porta per entrare nel centro storico, si sale su fino alla chiesa di S. Pietro che domina tutta Porto Venere da una parte e il mare dall’altra. Eugenio Montale poeta a me caro l’ha immortalata nella poesia “Portovenere”. Dal lato opposto si può salire fino al santuario della Madonna Bianca, una chiesa in stile romanico che infonde un senso di tranquillità e pace. Ci sono altre cose molto belle, ma ho scoperto con mio orrore che erano colonizzate da una specie di animale invasivo, maleducato e vorace: Il turista.
Come si fa a pensare che si possa trovare piacere nel vedere la suggestiva grotta di Byron, che prende il nome dall’omonimo poeta che vi trovava ispirazione, se guardando in quella direzione vedi solamente flaccidi corpi di turisti spiaggiati?!
Ma poi con quale decenza te ne vieni da Amburgo, Londra o le Americhe per mostrare la tua flaccida carne alimentata ad hamburger all’italica gente?! Credo che se Byron o Montale venissero adesso non scriverebbero le stesse poesie. È con questa riflessione che mi assale mi rendo conto che sono anch’io turista circondato da turisti. È una cosa che dovrebbe essere ovvia a chiunque ma non ne prendi mai coscienza fino a che non ti rendi conto di star condividendo la tua aria con gente di ogni tipo e provenienza.
Meglio quindi mangiare una focaccia ligure. Mangiare smonta le polemiche e regala un momento di pace seduto sul molo, lontano dalle attrazioni turistiche; davanti a me una barca a vela è appena arrivata e il capitano solitario fa le ultime procedure per l’attracco con nodi complessi. Intorno a me due venditori abusivi si riposano e come me mangiano ricercando l’ombra, nascondendosi ad un sole che inizia a picchiare un po’ troppo forte per i miei gusti. Guardo l’orologio e sono le undici e mezza. Mi avvio così, fotocamera al collo verso il battello, prossima fermata Riomaggiore.
Appena salito sul battello mi accorgo che non vi è posto a sedere sotto coperta, prendo la notizia con la mia solita calma e sopprimendo l’escandescenza figurata e reale, dato il sole, prendo posto sul ponte superiore. Dopo un leggero colpo di motori il battello si allontana dal molo e inizia a ruotare, io prendo la macchina fotografica, mi alzo in piedi e faccio due scatti, poi l’accelerazione mi ribalta sulla panchina su cui ero seduto pochi attimi prima, capisco così che è meglio sedersi. Inizia tra me e me a nascere un dubbio, guardo a destra e a sinistra e ne prendo sempre più coscienza, poi una barca all’orizzonte si avvicina e come in uno specchio vedo loro e rivedo noi sulla barca… accidenti siamo uguali ad un barcone di disperati provenienti dall’africa.
Lo so quello che stai pensando: “non è il caso di fare certi paragoni, la gente disperata in mare ci muore”. Hai ragione, ma cosa ci vuoi fare, cogliere l’ironia di vedere centinaia di persone di etnia variegata su una barca, le cui condizioni potrebbero portare in nessun caso a pensare che provenga dal futuro, non è da tutti.
Alla mia destra una serie di personaggi di non meglio precisata nazionalità vede qualche cosa nell’acqua. Emozione generale! Tutti si sporgono da una parte e dall’altra della barca facendola rollare maledettamente, considerazione la mia che trova prova in una signora che non resiste e scappa al ponte inferiore verso i bagni. L’oggetto dello sguardo turistico dei miei con naviganti è una serie di schizzi d’acqua indiscriminati che mi dicono essere delfini. Non faccio a tempo a prendere la macchina fotografica che questi scompaiono e l’emozione generale scompare. Così riprendendo posto sulla panca di plastica ustionante, poso lo sguardo su una ragazza che se ne sta in bilico su un corrimano del ponte. Veste un non precisato pezzo di stoffa il cui intento nel metterlo penso fosse quello di aprire una discussione filosofica negli astanti su che nome dargli; troppo corto per essere un vestito e troppo lungo per essere una maglietta, tutto bucato in stile gruviera, si stagliava enigmatico a segnale che li lo stilista aveva usufruito di troppa polvere bianca per disegnarlo. Polvere bianca che doveva aver fatto effetto anche sulla ragazza che evidentemente lo aveva apprezzato.
Arriviamo finalmente a Riomaggiore, scendendo su una banchina dietro la quale una lunga scalinata serpeggia fino ad arrivare ad una strada che invece taglia la costa come una cicatrice. Zaino in spalla, cappello in testa e macchina fotografica al collo arrivo fino in cima e seguendo il cartello recante la scritta “centro” arrivo al centro. Descrivere luoghi piccoli con tanta gente non è facile, poiché le distanze tra gli oggetti si deformano e il contatto continuo con persone che sgomitano provoca l’insostenibile sensazione che la tua aria poco e che queste te la stiano rubando tutta. Comunque una lunga fila di persone se ne sta difronte ad una canna dell’acqua che evidentemente è l’unica fonte di acqua del luogo. Dopo neanche quindici minuti che sto li mi accorgo che ho finito la visita e che evidentemente non c’è nulla da vedere. Facendo analisi critica di quella che all’epoca mi sembrava una decisione sensata ora mi accorgo fosse alquanto superficiale e dovuta più al caldo e alla gente che alla reale assenza di attrattive del posto. Iniziano ora tre quarti d’ora di inferno. Tornato infatti alla banchina mi rendo conto che non vi è il ben che minimo segno di barche e che dovrò aspettare parecchio. Il sole nel frattempo ha cortesemente alzato la temperatura che fa assomigliare la tortuosa scala della banchina alla stregua di qualche paesaggio dantesco. Trovo tra due pezzi di roccia un appiglio per mettere la mia kefiah a mo’ di tenda e guadagno un po’ di ombra per la mia testa che inizia a non operare come dovrebbe. Passati così quindici minuti inizia da una parte e dall’altra della strada ad arrivare gente che come me desidera andarsene, in un ultimo lampo di genio la mia testa mi suggerisce di portarmi sulla banchina in modo da assicurarmi un posto a sedere al coperto una volta sulla barca. Riscendo la scalinata, ma mi accorgo che essa mentre me ne stavo accampato come un beduino è già stata per metà occupata. Il caldo aumenta. Due ragazzi sbroccano e vestiti come sono si gettano in mare, poi gradita la freschezza altri seguono l’esempio. La barca arriva e tutti vi saliamo. Ricordo poco del viaggio che mi ha portato a Manarola, ma quando arriviamo a destinazione il mio cervello aveva ripreso a funzionare a dovere e il caldo era sceso.
Scendiamo su una piattaforma di cemento tra le rocce e sempre lì tra le rocce una stradina si avvia verso il paese. Superate le rocce si apre un attracco per barche. Recupero velocemente la macchina fotografica e scatto.
Inizio ad apprezzare il luogo e la visita di Manarola si dimostra piacevole. I colori sono unici, saturi e l’ombra che nel frattempo è arrivata fa godere al massimo il posto. I caruggi corrono su per la costa partendo dalla piazza del centro, dove a parecchi metri dal mare sono disposte le barche. Esse vengono messe in mare tramite un paranco che le cala dolcemente giù. Manarola è inoltre molto famosa poiché da qua arriva o parte, dipende dai punti di vista, la via dell’amore, il famoso sentiero che ogni turista vuole visitare, possibilmente non solo.
Giunti all’imboccatura del sentiero una donna sui sessant’anni con marito al seguito segnala con disappunto come questo sia chiuso e come “sti cazzo di liguri si debbano dare da fare”. Deluso vado verso il centro e fotografo il porto che da quassù sembra ancora più bello. Vedo in lontananza arrivare il battello, scendo di corsa la scalinata ed imbocco la strada tra le rocce, scatto un’altra foto alle barche e mi scontro contro una muraglia umana. Il battello nel frattempo attracca, il tizio che scende inizia ad urlare ed impazienti molti salgono per scendere cinque secondi dopo. Il tizio che sfoggia un cartellino che lo identifica come membro della compagnia marittima, sbraita ancora più forte, intercalando con il dialetto ligure. La barca è quella sbagliata.
Si aprono così quindici minuti di contatto ravvicinato con la gente in attesa. Una signora attacca bottone, evidentemente visto il caldo e la sua apparente età avanzata ha deciso di ricapitolare la sua vita ad un perfetto sconosciuto, vedendo avvicinarsi la sua probabile dipartita. Una ragazzina si avvinghia al fidanzatino, mentre alcuni ragazzi si tuffano in acqua mancando di pochissimo gli scogli con grande delusione dei presenti. Un puntino bianco all’orizzonte si avvicina diventando una nave a tutti gli effetti. Una volta arrivata, getta la cima all’addetto e fa scendere la passerella. Uno scorbutico genovese scende dalla barca e inizia ad annunciare le destinazioni e memori dell’esperienza accaduta solo quindici minuti prima stiamo tutti molto attenti. La barca è quella giusta salgo a bordo e mentre questa si allontana dal molo penso alla prossima destinazione Vernazza.
Vernazza, sarà per il sole che se n’è andato o sarà anche perché mi sono riposato sul battello, arrivato sul posto mi rendo conto che mi ci troverò bene. Cammino dal molo fino alla spiaggia e poi dalla spiaggia su verso la stazione, trovata una panchina all’ombra mi ci siedo e inizio a fare le parole crociate. D’estate le parole crociate sono un ottimo passatempo, tengono allenata la mente e soprattutto tengono lontani i rompipalle. Credo stia nel fatto che evidentemente intimorisce colui che ha intenzione di importunarne il possessore. In qualsiasi caso dopo un tre quarti d’ora che mi sto li sono pronto per un gelato. Scendendo verso la piazza trovo una gelateria con dei tavolini davvero graziosi e che sembrano fare al caso mio; non ricordo sinceramente il gusto del gelato ma ricordo che fosse qualcosa di strano e anche qualcosa di locale, direi un gelato al pesto non vorrei sbagliarmi.
Seduto che me ne sto lì ai tavolini vengono contornato da ragazzini che, col gelato in mano, schiamazzano agli ordini di una suora. Il mio momento di pace è sfumato e così anche l’allegria del luogo. Decido così di fare il turista e di andare a visitare la chiesa che a dirla tutta merita davvero. Una volta uscito mi siedo sulla spiaggia e aspetto l’ora del battello. Una canoa ripiena di cose se ne sta emblematicamente semi abbandonata sulla spiaggia, cosa ancora più emblematica essa batte bandiera pirata. Apprendo così che la canoa il cui nome è Paperella è di proprietà di uno che a quanto pare si crede davvero pirata e che partito dalle coste del Lazio ha intenzione di raggiungere la Spagna. Avventura che da un lato mi affascina ed è ammirevole e dall’altra mi riporta alla mente l’esperienza di poche ore prima del sole sulla testa, del caldo soffocante e della sensazione di ritrovarsi in mezzo al mare con l’anima che abbandona il corpo.
Arrivata l’ora di tornarsene a Monterosso mi avvio sulla banchina del porto dove altri turisti, per la maggior parte stranieri se ne stanno lì come me ad aspettare il battello. Senza preavviso una ragazzina decide che è arrivato il momento di tuffarsi in acqua e scostati a gomitate i presenti si getta in mare. In breve la seguono altri creando non poca confusione. Vista l’ora mi rendo conto che la banchina è molto piena rispetto alle altre volte e che quasi nessuno dei presenti andrà a Monterosso. Salito sulla barca raggiungo il ponte superiore prendo la macchina fotografica e scatto poi scappò via per prendere posto sotto coperta.
Potrei dire che qua termina la mia avventura, a poco servirebbe dirvi che arrivato a Monterosso ho fatto il bagno e che poi fradicio come ero sono salito sul treno per casa. Mi rendo conto che sicuramente ho calcato un po’ la mano su determinati aspetti quindi lasciatemi dire che sono convinto che le cinque terre siano veramente un patrimonio italiano, ma dall’altra parte sono anche convinto che con tutti quei turisti quel patrimonio non sono riuscito a vederlo. Tra l’altro lasciate che vi dia consiglio se decidete di andare a visitare qualsiasi posto d’estate e come me e avete una carnagione che tende più al latte che non al cioccolato mettetevi una dannata crema solare e soprattutto quando vedete il venditore di cappelli analizzate la cosa e considerate che stia rispondendo ad una vostra esigenza che fino a quel momento non sapevate di avere. Se uno ti vende cappelli evidentemente ci sarà molto sole, fate un investimento e compratene uno, la vostra pelle vi sarà riconoscente. Alla fin fine sicuramente è stata una gita divertente, sono queste esperienze quelle che poi ti porti dietro e ti piace raccontare. E’ grazie a queste esperienze che seduto su un battello cotto dal sole e fisicamente stanco ti fanno dire: è stato bello ma finalmente torno a casa.