Un giorno seduto nella mia camera mentre pulivo le lenti della mia macchina fotografica e le riponeva di nuovo nella borsa, riflettevo sul significato vero dell’avventura e quale fosse il compito da svolgere durante un reportage. Così preso dai miei pensieri staccavano lo sguardo dalle lenti e dalla macchina fotografica per volgerlo al di là della finestra. Notai così una cosa che non avevo, in anni di permanenza qua, mai visto: la montagna di fronte a me era mangiata.
Presa dunque la mia borsa, una pellicola in bianco e nero ed il motorino, iniziai ad avviarmi verso quel luogo che avevo appena scoperto. Arrivato sotto queste zone una sbarra di blocco ingresso, dovetti così lasciare il motorino lì, sinceramente neanche troppo legato, ed addentrarmi a piedi. Iniziai sin da subito a trovare cose molto interessanti da fotografare e un nuovo racconto da scrivere.
Le cave ad Albino sono una località molto particolare, una volta fiorente attività dell’Italcementi, oggi la natura ha strappato all’uomo ciò che una volta era suo. Così se non fosse per un enorme stabilimento ai piedi di questa, recante la scritta Italcementi, difficilmente qualcuno potrebbe pensare che li sulla montagna vi sia ancora traccia del passato minerario.
Percorrendo il sentiero s’iniziano a notare da subito una serie di strutture in cemento che dal terreno si stagliano verso il cielo e che la vegetazione non è riuscita a nascondere sotto il suo verde manto. Dai racconti dei miei genitori e nonni riescono a riconoscere che quelle forme appartengono a un sistema di trasporto che dalla montagna portava giù fino alla valle, precisamente agli stabilimenti che avrebbero frantumato la roccia e trasformata in cemento. Cavi, carrelli, roccia non ci sono, quello che rimane sono imponenti strutture che solo attraverso la fantasia del lettore possono tornare al loro glorioso passato.
Salendo poco la mi appare una scena che sembra quasi cinematografica, un cancello di ferro divelto e buttato sul lato, su cui un cartello con scritto pericolo caduta giace inascoltato. A far compagnia a questa scena altri cartelli, che insieme sembrano dire una cosa sola, non prendere questa strada. Mano a mano che prendo coscienza della scena e la macchina fotografica imprime fotogramma dopo fotogramma tutto questo, iniziò a notare la presenza di fori che senza dubbio non possono essere attribuibili alla ruggine. Fori grandi pollice si alternano ad altri piccoli come semi, segno inequivocabile di diversi colpi di fucile. È inutile negare che una scena di questo tipo metta nel mio animo non poca inquietudine.
Disinteressandomi ai cartelli, imbocco quella strada che da un primo momento in cui sembrava larga si inizia pian’ piano a stringere, fino a diventare un sentiero. 500 m più in là essa si riapre biforcandosi in prossimità di un grande edificio.
Un edificio principale, dimenticato, invaso dalla vegetazione ma che senza dubbio ha compiuto un gran lavoro, che anche se non ci fossero tramogge e altre cose disperse a testimoniarlo, chiunque potrebbe affermarlo. Seguono a lui altri edifici più bassi, sicuramente adibiti a rimessa, e su ogni muro graffiti, a memoria di un recente passaggio. È evidente come qui una volta camion carichi di pietra venisse scaricati e i carrelli sospesi venissero riempiti.
Ecco proprio lì una scena che mi fa tornare agli anni questi luoghi erano percorsi da lavoratori, una leva, arrugginita e ormai logora se ne sta vicino ad altre cose, il sole che filtra dalla finestra di fronte ad essa sembra indicarla, come l’occhio di bue a teatro, come la protagonista della scena. Chissà a cosa serviva, chissà quante volte è stata utilizzata, ora dice giace silente con tutti gli altri apparati della stanza inusati. Anche qui l’inquietudine si rifà presente, sarà forse anche per sole che inizia ascendere nel tardo pomeriggio, sarà anche forse per il brivido che mi attraverso la schiena quando penso a dove siano oggi i lavoratori questi luoghi.
Anche se il sole ormai al tramonto decido di continuare la mia salita per scoprire fino a dove porterà la strada, superato un ponte con due guardiole vuote e camminando su quella che una volta era sicuramente una strada asfaltata, ma che oggi assomiglia più a un sentiero di color catrame, intravedo uno spiazzo, che dopo poco raggiungo. Si apre di fronte a me la cava, un enorme scavo che come terrazzamenti sale per il monte. Li per terra giace una catena, e poco più in là un cartello, che se anche la ruggine ha eliminato la maggior parte delle scritte e facile ricondurre ad un divieto di accesso, crivellato di colpi. Allargando lo sguardo e dal cartello facendo una breve ricognizione a 360° della zona comprendo come evidentemente qualcuno l’abbia trasformato in un bersaglio da poligono e dunque la cava stessa come un poligono illegale.
Ma non è l’unica attività che si svolge in queste zone dimenticate da Dio, segni di ruote si intersecano a formare disegni sul terreno e dalla mia posizione si inerpicano su su verso i terrazzamenti più alti. Decido di seguirli comprendendo che sicuramente essi portino da qualche parte, infatti poco più in su un altro terrazzamento delle cave si apre e rocce sparse, vegetazione bassa e tubi arrugginiti descrivono un paesaggio che più ha a che fare con la fantascienza che con la cronaca. Anche qua ruote da motocross hanno scolpito il terreno, formando affascinanti curve che sembrano gareggiare tra di loro.
Mi siedo su una roccia, guardo il panorama difronte a me, un tubo poco distante si infila nel terreno in mezzo ad un gruppo di rocce. Porto la fotocamera all’occhio, metto a fuoco, premo l’otturatore e clak, trentaseiesimo scatto, rullino finito, si torna a casa. Mentre mi avvio al motorino, guardo un’ultima volta questi luoghi, il sole porta i suoi raggi al di là dell’orizzonte è ormai buio. Avvio il motorino, singhiozza un po’ poi si avvia, torno a casa. Mi risiedo lì dove ero partito, camera mia, letto. Mi rimetto a pulire le lenti, poi la macchina ed infine sviluppo il rullino. Guardo le foto ed inizio a scrivere questo articolo. Ed ecco quasi in aspettato la risposta alle mie domande iniziali si fa chiaro, un reportage deve portare alla luce ciò che è nascosto e un’avventura regalare immagini nuove alla mente.